Diversi mesi prima della nostra partenza, identifichiamo la meta del viaggione estivo: Madagascar.
Da alcuni anni avevamo in mente quest’isolona, ma il costo dei voli era sempre eccessivo e così si rimandava a favore del più economico sud-est asiatico.
Quest’anno trovo invece una tariffa abbastanza buona con Air France, 1028€ a testa A/R assicurazione inclusa.
Così è fatta: biglietti comprati a marzo e i mesi successivi saranno un susseguirsi di letture di racconti di viaggio, recensioni di tours e hotels e un crescendo di emozioni per questo paese ancora tutto da scoprire.
L’organizzazione dell’itinerario è stata laboriosa; avendo 3 settimane piene a disposizione dovevamo capire innanzitutto quale zona del Madagascar visitare in modo da avanzare abbastanza giorni da dedicare anche al relax e alle immersioni al mare.
Decidiamo quindi di optare per un tour di 6 giorni lungo la Route Nationale 7, da Antananarivo a Toliara, 1000 km, passando attraverso alcune cittadine e villaggi, come Antsirabe, Ambalavao, Ranohira e visitando il Parco Nazionale di Ranomafana e quello dell’Isalo.
In un primo momento vorremmo affittare la macchina e guidare noi, ma dopo alcune ricerche capisco che costa di più e onestamente preferisco avere un’autista che possa spiegarci le usanze del posto e darci informazioni sui luoghi che visitiamo. Dopo numerosi preventivi tramite alcune agenzie di Antananarivo trovate su internet, facciamo la nostra scelta, che si rivelerà un’ottima scelta: Benjamin di Visit Mada Tours (www.madagascar-tour.com) ci propone auto + autista per 45€ al giorno, benzina esclusa.
Il soggiorno mare lo faremo invece in un luogo incantato nel sud del Madagascar, completamente al di fuori delle rotte turistiche e semi sconosciuto: Salary. Mi innamoro subito di una delle due sole strutture ricettive presenti in loco, il Salary Bay, e prenotiamo per 4 notti.
Il resto lo decideremo on the way, sappiamo solo che vogliamo concludere il viaggio con una settimana a Nosy Be.
Dall’Italia prenotiamo anche i voli interni, Toliara/Antananarivo/Nosy Be/Antananarivo, tramite Air Madagascar, 200€ a tratta.
Il 26 luglio, colmi di aspettative, partiamo!
27 luglio – 1 agosto: DA TANA A TULEAR
Atterriamo a Tanà e un bel freschetto ci accoglie, ci sono 13°; in Madagascar ad agosto è inverno, ma le temperature aumenteranno man mano che ci spingeremo a sud.
L’aeroporto della capitale è ancora molto spartano, i passaporti vengono vistati e timbrati in modo confuso e noi turisti siamo ammassati intorno ad un gabbiotto per recuperare il nostro passaporto da un impiegato che con un filo di voce ci chiama ad uno ad uno, “mora mora”, “piano piano”. Attesa interminabile anche per i bagagli che sembrano non arrivare mai sull’unico rullo presente. Acquistiamo subito una sim locale della Telma per le telefonate e dopo più di due ore usciamo dall’aeroporto, è tarda notte e ci facciamo portare da un tassista all’Hotel Restaurant La Ribaudière che avevamo prenotato dall’Italia.
Crolliamo stravolti. La mattina seguente siamo pronti per il tour e Benjamin si presenta puntuale con il nostro autista Vonjy, paghiamo il saldo, concordiamo gli ultimi dettagli e si parte!
Tanà – Antsirabe: imbocchiamo la famosa Route Nationale 7, la strada principale del paese che taglia il Madagascar dal centro al sud, una strada statale asfaltata ma a tratti piena di buche. Abbiamo il minivan tutto per noi e facciamo subito la conoscenza di Vonjy, che parla un discreto italiano. Per raggiungere le nostra prima tappa, Antsirabe, percorriamo 150 km, impieghiamo alcune ore in quanto la velocità media è di 60 km/h.
Incuriositi osserviamo i paesaggi che ci circondano, siamo sugli altipiani interni e quindi basse montagne si alternano a verdi vallate dove i malgasci sono intenti nel lavoro nei campi di riso e manioca; gli zebù trainano gli aratri, trasportano enormi fasci d’erba, tronchi, mattoni e persone. Qua e là sparsi nella campagna ci sono piccoli agglomerati di capannucce di mattoni con il tetto di paglia, sono le loro abitazioni, ovviamente senza luce e acqua corrente; quest’ultima la prendono dai pozzi, ogni giorno, e l’acqua che bevono è la stessa che usano per lavarsi e cucinare.
Oltrepassiamo alcuni villaggetti un po’ più strutturati, un’unica via principale, la strada, lungo la quale si concentra l’essenza della vita del posto, mercati, bancarelle di cibo, galline, zebù, biciclette, carretti e gli immancabili taxi brousse. Questo folcloristico mezzo di trasporto è un pulmino che i malgasci utilizzano per spostarsi: su di esso vengono stipate quante più persone possibili, sul tetto vengono caricati i bagagli, ma ci è capitato di vedere anche una capra e un maiale, vivi, legati come dei salami sul portapacchi. Avevamo letto prima di partire che il nostro itinerario lungo la RN7 poteva anche essere fatto in taxi brousse, sarebbe stato sicuramente avventuroso…ma non si poteva calcolare la durata del viaggio, dato che i taxi brousse partono solo quando sono completamente pieni e non si fermano fino alla tappa successiva, ignorando le necessità dei poveri viaggiatori che stanno ore e ore senza poter andare in bagno. Siamo quindi ben contenti di essere sul nostro comodo minivan!
Arriviamo ad Antsirabe e tramite la Lonely Planet scegliamo una semplice ma accogliente guest house, Chez Billy; la nostra cameretta è sul tetto e il bagno in comune.
Non ci sentiamo molto tranquilli, ma decidiamo comunque di proseguire nell’esplorazione. L’elemento più caratteristico di Antsirabe sono i pousse pousse, coloratissimi risciò trainati a piedi nudi dai malgasci, loro lo utilizzano come mezzo di trasporto per brevi tragitti, noi ci lasciamo convincere a fare un breve tour della città. Ci immergiamo quindi nella vita locale, visitiamo il mercato e curiosiamo per le viette, ma l’imbrunire arriva in fretta, il sole ad agosto tramonta intorno alle 17.30 e non è conveniente per noi turisti stare in giro con il buio. Per cui rientriamo da Chez Billy e ceniamo prestissimo. Il ristorante si anima, arrivano probabilmente tutti i pochi turisti presenti in città e Billy, il giovane proprietario malgascio che ci dice di aver fatto il maestro di sci a Monginevro, è davvero allegro.
La mattina seguente all’alba si riparte, direzione Ranomafana National Park.
Antsirabe – Ranomafana National Park: per raggiungere la nostra seconda tappa percorreremo 250 km e ci impiegheremo un’intera giornata. Ma le ore in viaggio trascorrono davvero piacevolmente, tra una chiacchera con Vonjy e gli splendidi paesaggi che ci circondano. Ci fermiamo a fare visita ad una famiglia del posto, in aperta campagna. E’ qui che abbiamo il primo autentico contatto con il popolo malgascio. I bambini ci accolgono festosi e fanno a gara per farsi fotografare e tutti i componenti della famiglia, genitori, nonni e bisnonni si schierano incuriositi e un po’ imbarazzati davanti a noi. Visitiamo le loro casette di terra rossa, una tettoia con sotto un paio di zebù e al piano superiore, una cameretta con un lettino in cui ci dicono dormono 7 bambini, un’altra camera da letto, la cucina con le pareti annerite dal fumo del piccolo falò su cui cucinano.
Dopo aver lasciato al capofamiglia una piccola mancia, il corrispettivo di 1€, ripartiamo super soddisfatti da questo primo incontro.
In serata arriviamo a Ranomafana e sempre tramite la Lonely decidiamo di dormire da Chez Gaspard, un delizioso resortino di bungalows immersi in un giardino lussureggiante e pieno di fiori tropicali. Il paesaggio è cambiato notevolmente dalle verdi e fresche montagne degli altipiani interni, abbiamo raggiunto la foresta pluviale, dove piove praticamente tutto l’anno. Anche la temperatura è variata, durante il giorno 20°, ma la sera sempre fresco e l’umidità del posto e la pioggerellina incessante ci fanno dormire sotto la coperta di lana.
Il parco di Ranomafana è la principale attrattiva del luogo e propone trekkings di durata differente a seconda delle esigenze; noi optiamo per un trekking di 4 ore alla ricerca dei lemuri. Imbacuccati all’inverosimile, con poncho, calzettoni sopra ai pantaloni per il rischio sanguisughe e cappuccio ci addentriamo nella foresta con Vonjy e la nostra guida.
L’umidità è pazzesca e la pioggia non cessa nemmeno per un istante. Dopo poco avvistiamo alcuni esemplari di lemure dorato, siamo fortunati, scendono dagli alberi e riusciamo ad avvicinarci a sufficienza da scattare alcune belle foto, peccato per la luce che, a causa della pioggia e dei fitti arbusti, filtra a fatica e rende il tutto molto grigio. Man mano che ci addentriamo nella giungla, la vegetazione diventa sempre più fitta e i sentieri più fangosi, ci inzuppiamo letteralmente le scarpe, che sono ormai completamente rivestite di fango; ogni tanto una piccola sanguisuga fa capolino sui piedi, ma basta spingerla via con un legnetto. Il trekking è impegnativo a causa della pioggia e dei sentieri che sono tortuosi, ma senza pioggia il tutto sarebbe stato più semplice.
Dopo 4 ore di fatica siamo contenti di rientrare, siamo bagnati fradici nonostante il k-way, l’umidità è penetrata anche all’interno e siamo zuppi d’acqua dalle ginocchia in giù, ma l’aver visto così tanti lemuri e l’essere stati a contatto con una foresta ancora vergine ci rende molto soddisfatti.
Da Chez Gaspard passiamo il pomeriggio a lavare la scarpe nella doccia e cercare di asciugare i vestiti con il mio phon, ma il basso voltaggio presente nel bungalow fa andare il phon pianissimo e impieghiamo un’eternità!
La sera la pioggerellina continua incessante e decidiamo di uscire in infradito, nonostante i 15°, e andiamo a cena con Vonjy in un ristorante malgascio.
La corrente è saltata in tutta Ranomafana e la cittadina rimane al buio. Ceniamo a lume di candela e l’atmosfera è splendida…siamo nel pieno della foresta pluviale, in un paesino sperduto nel centro del Madagascar e ci gustiamo la cena più economica di tutta la vacanza: 4€ in 3 per riso, spezzatino di zebù, minestrone, birra e acqua. Rientriamo da Chez Gaspard e la luce continua a non esserci, ci cambiamo al buio e andiamo a dormire stravolti. La sveglia suonerà nuovamente all’alba, ci attendono 300 km per raggiungere il parco dell’Isalo.
Ranomafana – Ranohira/Isalo National Park: appena ci allontaniamo dalla foresta pluviale, il clima cambia nuovamente, diventa più secco, le temperature iniziano a salire, 22° durante il giorno, e il cielo si rasserena. I paesaggi sono dominati per un tratto di strada dalle fabbriche di mattoni, dove lavorano anche i bambini. I mattoni vengono accumulati a piramide e cotti sul posto; ovviamente ci colpisce vedere bimbi così piccoli portare sulla testa 4/5 mattoni.
Vonjy ci spiega che i bambini più poveri che non vanno a scuola, cominciano ad aiutare i genitori quando sono ancora piccoli, dal lavoro nei campi, all’allevamento degli zebù, alla lavorazione dei mattoni.
A metà del nostro tragitto ci fermiamo per una breve visita ad Ambalavao, un vivace paesino pieno di vita grazie ai suoi mercati: quello principale è il mercato degli zebù, il più grande del Madagascar; alcuni allevatori viaggiano attraverso la campagna con la loro mandria per settimane per recarvisi. Un altro mercato molto interessante è quello della frutta e verdura, un mix di colori incredibile. Ancora una volta siamo gli unici turisti e i malgasci ci guardano incuriositi; le donne e i bambini si lasciano però immortalare volentieri e scattiamo delle foto bellissime.
La tappa successiva prima di arrivare a Ranohira è la riserva di Anja, dove vivono in libertà i lemuri catta, dalla coda ad anelli. Ne vediamo un’intera colonia, sono scesi dagli alberi per bere nel laghetto e riusciamo ad avvicinarli, quasi a toccarli. Ne contiamo una ventina e non sappiamo più dove guardare, ci scorazzano intorno e non sono per nulla impauriti dalla nostra presenza.
Ci rimettiamo in marcia, l’ultimo tratto di strada il paesaggio cambia nuovamente: la campagna coltivata lascia spazio ad ampie distese steppose e secche, completamente disabitate. Percorriamo chilometri senza vedere anima viva, la RN7 in questo tratto è un rettilineo infinito e pieno di buche. Il sole comincia a calare e colora di arancione tutto ciò che ci circonda.
Arriviamo a Ranohira che è già buio e dopo aver girato un paio di sistemazioni che non ci convincono, optiamo per Chez Berny; il proprietario di questo simpatico ostello è un arzillo vecchietto francese di 83 anni, ex architetto in pensione ha costruito le stanze del suo hotel in pietra e legno (qua e là per la stanza ci sono anche corna di zebù appese ai muri), in stile baita di montagna. Ma la parte più caratteristica è sicuramente il ristorante, dove ogni sera Berny si siede da solo al suo tavolino accanto al camino, da cui domina l’intera sala; il suo passatempo preferito è incendiare/flambare le crêpes con il suo spruzzino pieno di rhum, ripete questo rituale ogni sera, per innumerevoli volte e con immensa soddisfazione.
Ancora una volta sveglia all’alba, ci attende un trekking di 6 ore nell’Isalo National Park. Vonjy ci presenta la nostra guida, Jean-Jacques, lui invece verrà a recuperarci alla fine della giornata.
I paesaggi dell’Isalo sono quelli che ci hanno stupito maggiormente, distese infinite delimitate da imponenti rocce arenarie modellate nel corso dei secoli dall’acqua e dal vento. Questi massicci creano dei canyons e gli spazi sono così ampi e sconfinati che la macchina foto non riesce a rendere l’idea della profondità. Ogni tanto, nel mezzo di questi prati stepposi, si apre una piccola oasi verdissima, con dei laghetti dall’acqua gelida e limpidissima. Il trekking non è impegnativo, è solo molto lungo e le temperature raggiungono al massimo i 25°, il clima perfetto per scarpinare. Durante il nostro percorso, siamo noi, Jean-Jacques e ogni tanto una manciata di turisti. Gli unici animali che popolano questo parco sono i lemuri, gli uccelli e i boa, ne incontriamo uno che striscia tranquillo nella sterpaglia.
Gli istanti più belli sono quelli dove raggiungiamo la cima di uno dei massicci di rocce arenarie, siamo sull’orlo di un precipizio e davanti a noi l’infinito.
Pranziamo in un’oasi in riva ad un ruscello in compagnia di un lemure che ruba la baguette ad una turista.
Abbiamo percorso a piedi e in 6 ore 15 km; Vonjy ci aspetta per riportarci da Chez Berny. Siamo stanchi morti, ma vogliamo fare un giretto per Ranohira per scattare ancora qualche foto alle scene di vita locale al tramonto. Anche qui nessun turista in giro, stanno tutti chiusi negli hotels, ma noi vogliamo curiosare. Mentre passeggiamo vediamo Vonjy e Jean-Jacques che bevono birra in un piccolo baracchino sulla strada, un tipico bar malgascio. Ci aggreghiamo volentieri e ci offrono spiedini di zebù cotti sul momento. La proprietaria del localino è talmente stupita di vedere dei turisti nel suo bar, che esclama in malgascio “Qualcosa di nuovo!”.
La sera ho voglia di pizza e veniamo a sapere di un italiano, Luigi, che ha aperto una pizzeria non distante da Berny. Non ce lo facciamo ripetere due volte e in un attimo siamo da lui a chiacchierare e gustare un’ottima pizza davvero! Luigi ci racconta la sua storia, prima di trasferirsi a Ranohira aveva la sua pizzeria a Ifaty, un posto di mare a sud da cui passeremo nel corso del nostro viaggio; un tifone però gli ha distrutto il locale e così ha deciso di ricominciare tutto da capo nell’Isalo.
Il giorno seguente sarà il nostro ultimo giorno di tour, percorreremo i restanti 200 km che ci separano da Toliara, la capitale del sud.
Ranohira – Toliara: ci stiamo spingendo sempre più a sud e le temperature salgono notevolmente, fino a 30°.
I paesaggi cambiano nuovamente e intravediamo i primi baobab lungo la strada.
Attraversiamo una serie di piccoli paesini i cui abitanti si dedicano alla ricerca degli zaffiri; uomini, donne e bambini stanno chini per ore con dei setacci lungo il fiume Ilakaka, scavano buche e gallerie nella terra e talvolta perdono la vita sotterrati dal crollo delle loro stesse gallerie; inoltre, ci spiega Vonjy, i ricercatori sono più degli zaffiri e i compratori, privati e aziende, li ricattano e acquistano le pietre a prezzi irrisori.
Arriviamo a Toliara nel primo pomeriggio e dobbiamo subito pensare a come proseguire il nostro viaggio: d’ora in avanti dovremo fare a meno di Vonjy che ripercorrerà a ritroso la RN7 per rientrare ad Antananarivo.
L’obiettivo sarà adesso quello di capire come raggiungere la nostra location al mare: Salary, una baia sperduta ai confini con la foresta spinosa, 130 km a nord di Toliara. Non vi è una strada asfaltata che conduce fin là, solo una pista di sabbia. Passiamo quindi il pomeriggio in giro per negozi che noleggiano quad, ci è balenata l’idea di avventurarci da soli fino a Salary, con il quad, sarebbe una vera avventura. Ma il nostro entusiasmo viene meno quando veniamo a sapere il costo di noleggio, 60€ al giorno. Per i nostri 7 giorni di mare sono davvero troppi, sforeremmo dal nostro budget e così, a malincuore, rinunciamo alla nostra avventura e decidiamo di affidarci ad un amico di Vonjy che ci accompagnerà con una jeep. Il transfer è comunque molto caro, 260€ A/R, ma il Salary Bay ci chiedeva ancora di più.
Scegliamo tramite la Lonely Planet una guest house economica e non granchè per la nostra notte a Toliara, Chez Lalà, ma vogliamo risparmiare. Malinconici più che mai, salutiamo il nostro ormai amico Vonjy e gli lasciamo una lauta mancia, ma se l’è meritata tutta.
La sera ceniamo in hotel, uno degli ultimi consigli di Vonjy è stato quello di non avventurarci da soli per la città, a parer suo poco sicura per noi turisti; inoltre ci raccomanda di non fare foto, i malgasci del sud non sono socievoli come quelli che abbiamo incontrato fino ad ora.
2 agosto – 6 agosto: SALARY
La mattina di buon ora l’amico di Vonjy viene a recuperarci da Chez Lalà con una jeep; percorriamo la strada principale che da Toliara ci porterà verso la costa e notiamo un’enorme piazza piena zeppa di persone in partenza con i taxi brousse e i camion brousse; questi ultimi sono il corrispettivo dei taxi brousse, ma anziché percorrere strade asfaltate, si avventurano sulle piste di sabbia che raggiungono le località più sperdute del sud del paese. Anche i camion brousse, come i taxi brousse, vengono caricati all’inverosimile, intere famiglie schiacciate su scomode panchette di legno nel cassone del camion e quando non ci stanno più, vengono caricati sul tetto, insieme ai bagagli. Se già un viaggio in taxi brousse è avventuroso, quello in camion brousse sarebbe epocale e per un attimo penso che mi piacerebbe essere là sopra in viaggio verso chissà quale destinazione e per chissà quanti giorni!
Nel frattempo ci ritroviamo in mezzo ad una baraccopoli di capanne di lamiera, dove vivono centinaia di poveri malgasci in condizioni igieniche davvero pessime se non inesistenti: bambini nudi seduti per terra in mezzo alla polvere, galline e smunti zebù che pascolano nell’immondizia, baracchette di 2 metri quadri senza nulla all’interno, nemmeno uno straccio su cui dormire. Siamo davvero impressionati, una zona così povera non l’avevamo mai vista.
Ci lasciamo alle spalle tanta povertà e cominciamo a costeggiare il mare, incontriamo alcuni villaggi di pescatori, note destinazioni balneari per gli abitanti di Toliara ma anche per i turisti che non vogliono spingersi troppo lontano, Ifaty e Mangily. I primi 60 km la strada è sterrata, ma tutto sommato non troppo malconcia, con il quad ce l’avremmo fatta alla grande. Ma man mano che avanziamo peggiora sempre più fino a diventare un soffice e profondo strato di sabbia in mezzo alla foresta spinosa e ai baobab; il nostro autista procede sicuro grazie alle marce ridotte e alla sua perfetta conoscenza della strada, ma dobbiamo soccorrere un paio di volte dei turisti che hanno noleggiato un fuoristrada in autonomia e si sono insabbiati. La pista di sabbia diventa ben presto un sentiero pieno di buche e pietre e procediamo davvero a passo d’uomo con una temperatura esterna di 33°.
Dopo 5 ore ininterrotte arriviamo finalmente a destinazione: lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è magico…una baia lunga chilometri dalla sabbia bianco borotalco e l’acqua azzurro fluorescente, non c’è l’ombra di un turista, solo qualche piccolo villaggetto di pescatori. E’ proprio il paradiso che avevamo tanto sperato di trovare.
Dall’Italia avevamo prenotato 4 notti presso il Salary Bay (www.salarybay.com), un piccolo resort davvero splendido. Una decina di bungalows in tutto, a ridosso delle dune sulla spiaggia, immersi in un giardino di piante spinose. La reception e il ristorante dominano la baia dall’alto, un luogo davvero paradisiaco e tutto per noi dato che siamo 4 ospiti in totale.
Il Salary Bay è gestito in modo impeccabile da Michelle, signora francese e proprietaria della struttura. Il tratto di spiaggia di sua proprietà è lungo 7 km, ma tutta la costa prima e dopo Salary è costituita da candide spiagge, la maggior parte delle quali non vedono anima viva per mesi, se non qualche pescatore di passaggio con la sua piroga.
L’isolamento totale è garantito anche dal fatto che i cellulari non prendono, l’unico modo per comunicare con la civiltà è utilizzare il telefono satellitare di Michelle, a caro prezzo.
Il ristorante è eccellente, le portate sono abbondanti e curate nei minimi particolari, carpaccio di pesce appena pescato ogni giorno e su richiesta anche la pizza, senza dubbio le mangiate migliori della nostra vacanza le abbiamo fatte lì.
Le giornate trascorrono lentamente e ci gustiamo ogni singolo istante; il mare è freddino, 23° in questo periodo, ma ciò non ci impedisce di stare a mollo. Il tempo è sempre splendido e ventilato e il cielo azzurro fa risaltare i colori del mare.
Facciamo lunghe passeggiate al tramonto, senza mai arrivare alla fine della baia, tanto gli spazi sono estesi.
Vengono organizzate attività come gite in quad nella foresta spinosa, uscite in barca per l’avvistamento delle balene, snorkeling e immersioni.
L’avvistamento delle balene è stata un’esperienza incredibile: con una lancia siamo andati in mare aperto, ben oltre la barriera corallina e dopo un paio d’ore di ricerca eccole, mamma e figlia, le inseguiamo per più di un’ora e riusciamo ad avvicinarci fino a circa 20 metri, salgono in superficie per respirare, ma giusto il tempo di un paio di scatti e spariscono negli abissi, per ricomparire 100 metri più avanti. Nuotano ad una velocità impressionante e ben presto dobbiamo salutarle per rientrare, dato che siamo davvero lontani dalla costa.
Facciamo anche un’immersione, ma la visibilità non è buona a causa del plancton. Inoltre la nostra guida non ci ispira molta fiducia e quando ci accorgiamo che l’erogatore di emergenza non c’è, rimaniamo di stucco…la risposta del barcaiolo è: “solo la guida ce l’ha”. Di certo non ci immergiamo serenamente, ma per fortuna fila tutto liscio.
Il Salary Bay è l’unico resort moderno e di un certo livello presente in loco; ma se si vuole risparmiare e vivere davvero un’esperienza da Robinson Crusoe, si può scegliere di pernottare da Chez Francesco. Avevamo letto di lui su internet, ma non eravamo riusciti a trovare né un sito internet né un contatto. Siamo curiosi di conoscere la storia di quest’italiano che vive come un eremita nella baia di Salary, e così, un pomeriggio, ci rechiamo a fargli visita.
Ci accoglie Francesco in persona, un tipo alquanto strambo ma un gran chiacchierone: in Madagascar da ben 20 anni, ha voluto isolarsi dal mondo e ha eletto a suo rifugio questo posto sperduto; ha costruito 5 bungalows spartani ma molto affascinanti. Ce li mostra con orgoglio, anche perché ha fatto tutto da solo. La moglie, Claire, una malgascia, si occupa della cucina ed è intenta a preparare la conserva con i pomodori del loro orto. Non sono molti i turisti che si avventurano fin quaggiù e ancora meno quelli che scelgono di soggiornare da lui, ma non sembra preoccuparsene, il suo unico obiettivo è quello di vivere in modo semplice, con i prodotti che la terra e il mare gli offrono.
Francesco ci racconta di una tribù che vive nella foresta spinosa alle spalle di Salary; non vogliono avere contatti con la civiltà e vivono ancora in modo primitivo; lui è l’unico ad essere riuscito ad instaurare con loro una forma di contatto tramite il baratto: ogni tanto gli lascia ai confini della foresta alcuni barattoli di conserva fatti da sua moglie; il giorno seguente loro gli fanno trovare della marmellata, senza che si siano mai incontrati di persona. Questo è quello che ci ha raccontato, che sia più o meno romanzato non lo sapremo mai!
A questo punto il nostro programma prevederebbe di lasciare Salary per proseguire di altri 80 km a nord, verso Andavadoaka. Tuttavia dobbiamo cambiare itinerario in quanto non ce la sentiamo di spendere altri soldi in un costoso transfer in jeep. Al tempo stesso non possiamo rimanere al Salary Bay perché è troppo caro…per un attimo meditiamo di spostarci da Francesco, ma poi decidiamo di vedere un posto nuovo: scelta effettuata grazie alla Lonely Planet, andremo ad Anakao, a sud di Toliara.
Eccoci quindi di nuovo sulla pista di sabbia che ci riconduce nella civiltà; lasciamo Salary davvero a malincuore, raramente nei nostri viaggi in giro per il mondo abbiamo trovato un luogo di una tale bellezza e autenticità.
A Toliara torniamo a dormire da Chez Lalà e questa volta la camera è peggio di quella dell’andata, con ingresso dal bagno, ma sarà solo per una notte e poi siamo comodi perché la mattina seguente la barca per Anakao parte dal molo a due passi da lì.
La sera ci facciamo portare a cena in taxi (talmente sgangherato che per metterlo in moto il tassista e il figlioletto devono spingerlo a mano per qualche metro) alla Gelateria Italiana, dove mangiamo una buona pizza. Scambiamo quattro chiacchere con il proprietario Antonio, che, venuto a sapere che il giorno dopo ci recheremo ad Anakao, ci suggerisce caldamente di pernottare al Peter Pan (www.peterpanhotel.com), piccolo auberge gestito da due italiani.
Dato che anche la Lonely ne parla molto bene accettiamo e Antonio gentilmente ci prenota telefonicamente le 3 notti successive.
7 agosto – 9 agosto: ANAKAO
Anakao è una località di mare sulla costa a sud di Toliara, ma arrivarci via terra è piuttosto complicato in quanto a causa della caduta di un ponte che non è stato più ricostruito, è necessario passare dall’entroterra allungando di molto la strada; per cui si raggiunge comodamente in un’ora di barca. I collegamenti sono garantiti solo la mattina, in quanto il pomeriggio la corrente è molto forte e il transfer non è ritenuto sicuro.
Ci presentiamo quindi al molo, ci caricano insieme ai bagagli su di un carretto trainato da due smunti zebù che, entrando in acqua fino al ginocchio, ci conducono alla lancia.
Eccoci ad Anakao, sbarchiamo sulla spiaggia con i piedi a mollo e ci viene subito incontro l’eccentrico Dario, proprietario del Peter Pan.
Il posto è incantevole e ci colpisce fin dal primo istante: all’interno di una staccionata a forma di matite colorate si trovano 9 bungalows, uno diverso dall’altro e tutti perfettamente intonati con l’ambiente circostante. Il nostro è fronte mare, un’amaca sul terrazzino e una cameretta tutta colorata; ma ciò che più incuriosisce è il bagnetto, senza acqua corrente. Per lavarsi si attinge da un bidone di acqua di sorgente che viene rimpinguato ogni mattina, ma farsi la doccia calda non è un problema, basta chiedere e ci si vede recapitare in camera un secchio di acqua bollente appena scaldata sul fuoco. Ciò che per molti può sembrare scomodo, per noi è pura avventura e siamo ben contenti di sperimentare quest’atmosfera decisamente più spartana rispetto a Salary Bay, ma piena di fascino.
Dario e Valerio, i due giovani proprietari, sono super in gamba; hanno imparato il dialetto malgascio e comunicano perfettamente con il loro personale, dando lavoro in svariati modi ai pescatori del posto.
Ogni mattina le bimbe dell’adiacente villaggio vezo si affacciano alla porta del Peter Pan, per proporre il pesce appena pescato, che viene cucinato da Madame, la loro fedele cuoca.
Il ristorante è davvero caratteristico, si pranza e si cena tutti insieme e Dario e Valerio ci incantano con i loro racconti su come hanno trovato e costruito il Peter Pan e con le loro esperienze di vita presenti e passate.
Anche ad Anakao i turisti non sono molti, ma le strutture ricettive non mancano, ce n’è per tutti i gusti. Passeggiando in spiaggia abbiamo osservato gli altri hotels, resortini, guest houses, ma nessuna ci è sembrata tanto originale e accogliente quanto il Peter Pan.
La spiaggia e il mare sono molto belli anche qui, pur non avendo i colori di Salary, il paesaggio è magnifico; alle spalle del Peter Pan le dune di sabbia si spingono fin nella foresta spinosa e la presenza di un esteso villaggio di pescatori garantisce un autentico contatto con la gente del posto, proprio come piace a noi.
Ci informiamo subito da Dario e Valerio sulla presenza in zona di centri diving, e veniamo a sapere che a pochi passi dal Peter Pan un altro ragazzo italiano, Andrea, ha da poco aperto un piccolo centro Padi, Il Camaleonte.
Andiamo subito a dare un’occhiata e nel giro di mezz’ora abbiamo già fissato due immersioni per la mattina seguente. Andrea, divemaster preciso e affidabile, ci mostra con entusiasmo i vari siti di immersione presenti nella zona e, dato che abbiamo una discreta esperienza, decide di portarci all’Atlantide, dove ci sono archi naturali e grotte.
L’esperienza di raggiungere il sito su di una piroga di legno, sulla quale ci siamo noi due, Andrea, due barcaioli e 6 bombole, è magnifica! Lo spazio sulla piroga è ridotto e per questo ci si veste in acqua.
Le immersioni sono molto belle, la visibilità è buona e i passaggi nelle grotte sono molto suggestivi; la barriera corallina è colorata anche se non c’è molto pesce. Siamo comunque molto soddisfatti.
Da Anakao si possono effettuare anche escursioni nell’entroterra e gite in barca; noi avendo a disposizione un tempo limitato, decidiamo di visitare l’isoletta di Nosy Ve, appena di fronte. Dario e Valerio ci organizzano il transfer in piroga a vela e in pochi minuti ci ritroviamo su questo piccolo atollo circondato da una laguna azzurrissima. Saremo in tutto una manciata di turisti e gli unici abitanti del posto sono i fetonte coda rossa, uccelli simili ai gabbiani che vengono a nidificare proprio a Nosy Ve; in ogni cespuglio c’è una mamma che cova o un piccolo batuffolo dal pelo bianco.
Ci mangiamo le mani per aver già prenotato i voli interni per Nosy Be; ad Anakao si sta talmente bene che vorremmo rimanerci ancora qualche giorno, ma dobbiamo proseguire il nostro viaggio.
La nostra ultima sera ad Anakao facciamo una lunghissima passeggiata al tramonto sulla spiaggia, attraversando il villaggio dei pescatori e gustandoci le ultime autentiche scene di vita locale. Sappiamo che a Nosy Be, contaminata ormai da anni dal turismo di massa, sarà tutto diverso.
La mattina seguente all’alba riprendiamo la barca per Toliara e mentre ci allontaniamo da Anakao siamo sempre più malinconici; è vero, abbiamo ancora una settimana di vacanza a disposizione, ma siamo consapevoli del fatto che il vero viaggio, quello avventuroso, on the road e dove gli imprevisti sono dietro l’angolo, è terminato.
Salary è il posto di mare più bello del Madagascar, e uno dei più belli mai visti in assoluto, ma Anakao è quello che ci rimarrà più nel cuore.
Tuttavia abbiamo la curiosità di vedere anche Nosy Be, dove contiamo di concentrarci sulle immersioni.
10 agosto – 17 agosto: NOSY BE
Voliamo con Air Madagascar da Toliara a Nosy Be e in aeroporto prenotiamo tramite Booking.com 3 notti al Nosy Be Hotel (www.nosybehotel.com), nella zona di Ambatoloaka, la più turistica dell’isola.
Il Nosy Be Hotel è il classico albergo 3 stelle, di buon livello, con piscina, wi-fi, spa e ogni comfort si possa desiderare. La spiaggia, Belle Vue, è carina, anche se la sabbia è vulcanica e i colori del mare non sono granchè, ma questo ce lo aspettavamo.
Dopo due settimane di viaggio all’avventura ci ritroviamo nella civiltà, ma già ci mancano le bianche spiagge di Salary e Anakao e l’atmosfera di quei luoghi ormai così lontani.
Affittiamo il motorino per soli 8€ al giorno e giriamo le varie spiagge della zona, Palm Beach e Madirokely; il problema di queste spiagge è che risentono fortemente del fenomeno delle maree, per cui per gran parte della giornata non è possibile fare il bagno, in quanto l’acqua si ritira e lascia dietro di sè una lunga distesa un po’ fangosa.
Gli hotels e i resorts si susseguono uno dopo l’altro, ma notiamo fin dal nostro arrivo che le strutture sono mezze vuote, poco turismo anche qui e questo ci stupisce molto, ma buon per noi!
La sera ceniamo ad Ambatoloaka, piccolo villaggetto pieno di ristoranti e localini, dove si concentrano i pochi turisti che mettono il naso al di fuori dei loro resorts, la maggior parte rimane chiusa negli all inclusive e del Madagascar non avrà che un’idea molto molto vaga.
Per le immersioni ci appoggiamo a Mada Plouf, un diving gestito da un italiano, Michele. I centri diving presenti nella zona sono molti e propongono anche escursioni alle varie isole nei dintorni e nell’entroterra.
Facciamo due immersioni molto piacevoli: la barriera corallina è colorata e vediamo una grossa cernia, pipistrello, balestra, nemo, farfalla, nudibranchi e gamberetti. Purtroppo nessuna tartaruga di passaggio…e niente drop off, ma i pinnacoli di corallo sono davvero belli.
Per trovare il mare bello a Nosy Be, è necessario andare in escursione sulle isolette intorno, Nosy Komba, Nosy Sakatia, Nosy Iranja, Nosy Ankazoberavina e l’arcipelago di Nosy Mitsio. Quest’ultimo avrebbe dovuto far parte del nostro programma, il top per le immersioni, ma dopo esserci informati in loco abbiam capito che non era purtroppo fattibile, poiché in giornata da Nosy Be non si può fare e pernottare là è impossibile, a meno di spendere una cifra folle nell’unico resort dell’isola, il Constance Tsarabanjina.
Rinunciamo quindi a Nosy Mitsio e optiamo per una giornata a Nosy Iranja, un vero paradiso, con una lunga lingua di sabbia che collega due isolette e una laguna azzurrissima tutt’intorno. Pernottare a Nosy Iranja si può, ma le uniche due strutture sull’isola hanno costi abbastanza alti, per cui dobbiamo accontentarci di godercela in giornata.
A Nosy Be costa tutto il triplo rispetto al resto del Madagascar.
La fine del nostro viaggio si avvicina inesorabilmente e decidiamo di spostarci da Ambatoloaka per spingerci più a nord, alla ricerca di un posto un po’ più isolato e selvaggio per i nostri ultimi 3 giorni.
Scegliamo il Sangany Lodge (www.sanganylodge.com), sulla spiaggia di Amporaha, sempre prenotato sul momento tramite Booking.com.
Questa struttura è un vero gioiellino, a bordo spiaggia una fila di bungalows e la punta di diamante, un unico bungalow su di un albero a 13 metri di altezza.
Il caso vuole che, nonostante avessimo prenotato un beach bungalow, ci venga dato il top tree bungalow, che fortuna!
La nostra casetta sull’albero è incantevole, tutta di legno, con il bagno aperto sulla camera da letto e un terrazzino con vista sulla baia.
La proprietaria del lodge, una signora francese, Yvonne, è molto gentile e disponibile e si fa in quattro per rendere il nostro soggiorno perfetto.
Siamo in tutto 6 ospiti e a pranzo i tavolini vengono apparecchiati direttamente in spiaggia, sotto alle palme. E’ stupendo pranzare fronte mare e i piatti a base di pesce, quasi tutti, sono ottimi.
Il relax è garantito in questo luogo che ci fa riassaporare un pizzico del vero Madagascar.
Le ultime giornate trascorrono serenamente, le notti un po’ meno…la nostra casetta sull’albero si rivela un incubo la notte: appena il generatore viene spento e la luce viene a mancare, scopriamo di avere un coinquilino, un topo! Ci rosicchia, nell’ordine, il sapone, le bottiglie d’acqua che usiamo per lavare i denti, le buca ad una ad una, divora un’enorme blatta che avevamo appena schiacciato, ci buca la borsa sub che così non è più waterproof, un vero demonio insomma. Inoltre vivono in camera con noi due rondinini, che ci svolazzano sopra alla testa, ma questo può anche essere piacevole.
Facciamo le ultime due immersioni con Michele, anche se dobbiamo farci 40 minuti di taxi per tornare ad Ambatoloaka, ma vogliamo esplorare ancora una volta la barriera corallina.
Eccoci a fine vacanza, quasi increduli.
Lasciamo Nosy Be e Air France ci informa che il nostro volo da Antananarivo a Parigi è stato ritardato di 7 ore e questo ci obbliga a trascorrere una notte ulteriore a Tanà.
Ci facciamo portare all’hotel Au Bois Vert, sperando che Air France ci rimborsi, ma lo sapremo solo una volta in Italia.
La mattina seguente, all’alba, con il taxi ci dirigiamo all’aeroporto. Attraversiamo le strade della capitale, che, nonostante sia ancora buio, sono già brulicanti di vita. Ancora per qualche istante abbiamo la possibilità di goderci questi ultimi attimi che riassumono un po’ tutto il nostro viaggio: i malgasci intenti a sistemare frutta e verdura sulle loro bancarelle, i colorati pousse pousse, i carretti trainati dagli zebù…e i taxi brousse, con il loro carico di persone, animali e merci, in partenza verso chissà quale meta del paese, dove arriveranno solo dopo giorni, forse settimane.
Abbiamo viaggiato per due settimane attraverso il Madagascar, siamo stati invece in vacanza a Nosy Be per una settimana. La differenza è qui: tra viaggio e vacanza, tra la Grande Terre, il Madagascar, e la grande ile, Nosy Be.
Noi abbiamo preferito senza dubbio la prima, ed è questa che porteremo nel cuore.
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